23 Dic

La civiltà del Pane

In Blog
Written by 

Ho ricevuto gli Atti dell'evento "La Civiltà del Pane", in tre tomi per oltre 2.000 pagine, nell'ambito dell'Expo Milano 2015, e l'estratto con le prefazioni "Fiat panis", di José Graziano da Silva, Direttore Generale della FAO e "Pane e Europa", di Martin Schulz, Presidente del Parlamento Europeo, e "La Civiltà del pane. Bread and Civilization", di Gabriele Archetti, dell' Università Cattolica del Sacro Cuore, curatore dell'evento, e con la mia relazione "Il pane: cibo eletto e simbolo di civiltà", che qui riproduco.

Giancarlo Pallavicini
Accademia delle Scienze della Federazione Russa, Mosca
Il pane: cibo eletto e simbolo di civiltà

Per come sono collocate queste mie riflessioni, al termine delle diffuse ed approfondite analisi sulla “civiltà del pane”, darei per scontato che il pane sia cibo eletto e simbolo di civiltà e mi limiterei ad esporre soltanto alcuni tra i motivi che ne reggono l’assunto, per privilegiare talune chiose sul pane e sul cibo in generale, di cui esso è simbolo, nelle loro implicazioni sullo sviluppo della società e dell’economia, sulla qualità della vita, sulla tutela ambientale, sulle sperequazioni nei processi di produzione e distribuzione del cibo e sulla conseguente fame nel mondo. In ciò sollecitato anche dall’intervento del direttore generale della FAO, José Graziano da Silva, posto in apertura di questo volume, dovuto all’illuminato e fattivo impegno del prof. Gabriele Archetti a memoria di questo primo evento, sostenuto dai qualificati enti patrocinanti e da Esselunga, della quale conosco la datata tradizione nell’ambito della panificazione*. Inoltre, essendo la mia una relazione d’assieme sugli aspetti riguardanti il pane, nei termini evidenziati dal titolo, mi sembra opportuno allargarne la trattazione ad alcune delle emergenze appena accennate, che caratterizzano valori propri della civiltà del pane.
Partendo da quel pane che, con la scoperta del fuoco che ne permise la cottura, contribuì a distinguere gli umani dagli animali, superando anche l’abituale ingestione di alcaloidi nocivi, propria di taluni fondamentali consumi di derrate crude. Esso scandisce il passaggio dai prodotti della natura al prodotto dell’uomo. Infatti, il pane si rea-

Postillla * Ricordo, infatti, che nei lontanti anni ’60 all’Università Bocconi seguii una tesi di laurea che si proponeva di realizzare un “Prontuario della Grande Distribuzione” e chiesi a Bernardo Caprotti di ospitare il laurenado presso la sede di Esselunga, avvalendomi del mio ruolo di consulente dell’AIGID, Associazione Italiana Grande Distribuzione, come allora si chiamava. E fu così che appresi le modalità artigianali con le quali nelle singole unità di vendita (non meno di quattro per area sosteneva Bernardo Caprotti) veniva prodotto e distribuito il pane. Questa tesi venne poi premiata in Bocconi per l’approfondimento degli aspetti innovativi con i quali già allora operava Esselunga.

lizza col lavoro, con l’azione del lievito i cui enzimi operano per evitarne la decomposizione, col fuoco che lo cuoce. Fu l’inizio della civiltà, resa possibile al termine della glaciazione, con le coltivazioni agricole e la stazionarietà degli insediamenti.
Dapprima composto con castagne, ghiande, radici, erbe, poca farina e terra o sabbia, soprattutto nei periodi di carestia, andò via via assumendo forme e contenuti sempre più raffinati, anche a seguito della casuale scoperta della lievitazione delle farine sulle rive del fiume sacro, all’epoca della XVIII dinastia egizia, sino a caratterizzare, con varie forme e composizioni, le diverse aree geografiche, le culture locali e le tradizionali so- lennità. Ciò fece dire ad Agostino che il pane racconta la nostra terra e anche la nostra storia1. Ma già prima di lui le antiche cronache ricordano che i sumeri erano considerati civili perché si nutrivano di pane di frumento, a differenza dei barbari. Nell’Urbe romana i nobili, i liberi e i religiosi utilizzavano anche loro pane per lo più di frumento, del quale era vietata la vendita ai contadini, mentre la plebe si nutriva di polenta di farro.

IL PANE “STATUS SYMBOL”
La tipologia del pane prodotto e consumato mantenne a lungo la caratteristica di “status symbol”. Ancora nel primo Novecento le famiglie contadine si nutrivano di pane prodotto in casa e composto con i cereali di propria produzione, in prevalenza grano- turco e segale. Soltanto gli abitanti delle città e chi lavorava nelle fabbriche erano in grado di nutrirsi del pane del fornaio, che si differenziava sempre più secondo le colture prevalenti nell’area e le diversità ambientali e culturali, con le richiamate tipizzazioni nell’occasione di particolari ricorrenze o festività.
Con il pane, si è soliti consumare altre derrate alimentari, chiamate “companatico”, a conferma della preminenza del pane. La cui rilevanza trova pure conferma nel significato religioso di strumento di comunione tra il creatore e l’uomo. Anche papa Bergoglio ha recentemente ricordato che «Il pane partecipa in qualche modo della sacralità della vita umana e perciò non può essere trattato soltanto come una merce». Nella sua recente visita alla FAO, ha riconosciuto il valore del pane, quale cibo eletto e indice di civiltà, che può contribuire ad una risposta all’appello di chi ha fame ed è denutrito, attraverso un miglior utilizzo delle risorse alimentari che non sia influenzato soltanto dalla «priorità del mercato» e dalla «preminenza del guadagno», da cui conseguono gravi sperequazioni

1 Agostino d’Ippona, più noto come sant’Agostino o doctor gratiae, filosofo, vescovo e teologo (Tagaste nel- l’attuale Algeria, 354 d.C - Ippona, 430 d.C.).

nella distribuzione del cibo2. Viene qui in questione lo schema di consumo generale degli alimenti ed il ruolo del pane, che è stato definito di mediazione per l’economia del naturale e la tutela ambientale. Da giovane mi chiedevo perché Esaù non si fosse accontentato del pane o, quanto meno, della metà delle lenticchie di Giacobbe per salvare, almeno in parte, i diritti della primogenitura3. Cosa c’entra Esaù con noi? C’entra molto perché da adulto constato che noi, come Esau, paghiamo un caro prezzo nel puntare spesso e comunque troppo sulle lenticchie, mettendo a repentaglio aspetti fondamentali come la salute, l’equilibrio sociale, l’ambiente naturale. Soprattutto, rinunciamo all’equilibrio rappresentato dall’uso corretto del pane e del companatico, in assenza del quale tutto si scompone, peraltro senza ottenere con questo benefici durevoli.
Facciamo come il gambero? Dopo l’“homo sapiens”, poi “agricola”, poi “faber”, arriviamo all’“homo ludens”, che cammina a ritroso, almeno in alcune aree economicamente sviluppate? È quello che succede, stando ad evidenze statistiche, dalle quali risulta che il consumo di pane tradizionale rimane particolarmente elevato laddove i consumi nel loro assieme appaiono più virtuosi, mentre decresce sensibilmente nelle aree economicamente più favorite. Qui si consuma meno pane, che talvolta viene troppo sofisticato e privato di alcune qualità importanti4.
Va rilevato che in ogni area geografica il pane è da sempre conosciuto come alimento primario pressoché unico. Tuttavia, a mano a mano che lo sviluppo economico rende disponibili maggiori capacità di spesa, il prezzo del pane aumenta di molto, anche per la diversa cura e presentazione che ne viene fatta. Il che comporta maggiori costi, come è più che logico, ma il consumatore riduce il ricorso al pane per la sua alimentazione. Nell’assenza di un’adeguata informazione, o meglio, di un “marketing” specifico come per gli altri prodotti, si continua a consumarlo, ma quasi più per riflesso del costume acquisito in giovane età, quando si consumava più pane, e per istintivo assecondamento della tradizione. Di questo passo, però, si rischia di ridurre ulteriormente il suo consumo. Si impone, pertanto, una maggior attenzione alla comunicazione, che ne mantenga viva l’importante essenzialità, che contrasti le poco credibili

2 FAO, II conferenza sulla nutrizione, Roma, 20 novembre 2014.
3 Giacobbe, nel libro della Genesi, ci viene mostrato tanto furbo da far odorare le sue vesti di animali bruciati per sostituirsi a Esau, che era sempre con gli animali, e confondere il padre cieco per ottenerne la benedizione come primogenito.
4 Raramente è presente quel profumo che consegue alla farina macinata a pietra e alla lievitazione con pasta madre, che rimanda all’occasionale scoperta del lievito madre. Difficilmente ormai ci si imbatte nelle gallette del marinaio, soppiantate dalle confezioni luminescenti dei supermercati.

diete senza pane, che ne ponga in risalto i valori nutritivi e salutistici, ma anche culturali, avendo presente che tutti gli altri prodotti in vendita vengono ammantati di valori, del tipo: “la tua auto”, “l’auto che ti ama” e così di seguito. Sono eccessi, ma ri- cordiamo che il pane, più di ogni altro prodotto, offre richiami culturali e persino affettivi ben più reali, che vanno ricordati e fatti valere.

PROGRESSO E DECADENZA: LA NEUROECONOMIA
Ma se il pane è cibo eletto e simbolo di civiltà, viene spontaneo chiedersi se stiamo assistendo ad uno scadimento più generale e diffuso di importanti valori, laddove si hanno redditi tanto elevati da promuovere atteggiamenti marcatamente consumistici. E ciò porta a riflettere sul rapporto tra sviluppo economico e civiltà, intesa come riconoscimento e rispetto di comuni valori: sul rapporto tra progresso e decadenza. Sembra di essere davanti ad un metaforico palazzo luminoso ed imponente, affacciato ad una grande piazza, ma svoltato l’angolo vediamo l’apertura delle grandi finestre come orbite vuote, sprangate da assi di legno.
Viene qui in questione la neuroeconomia, cioè quel ramo delle scienze economiche che va delineandosi con contorni sempre più precisi, la quale pone in relazione l’uomo e la gratificazione dei suoi comportamenti nell’utilizzo dei beni di cui dispone nella cosiddetta “società fluida” dai mille paradossi. Ne risultano constatazioni come quella della ricchezza senza felicità, per la quale, oltre ad un certo livello, la maggior disponibilità di beni non accresce la gratificazione.
A quel punto ci troveremmo come su di un tapis roulant: si può accelerare finché si vuole il ritmo, ma restiamo sempre fermi5. Infatti, da studi del concetto di felicità e delle sue relazioni con lo sviluppo economico risulterebbe che il livello medio della felicità non è strettamente rapportabile a quello del reddito medio pro-capite, salvo laddove vi sia difficoltà nel soddisfacimento dei bisogni primari. Stante questa incongruenza è il caso di porre in discussione anche le valutazioni del benessere di un Paese, attraverso il solo Pil, che è idoneo a svolgere soltanto una funzione strumentale per altre finalità6.

5 Sul tapis roulant il nostro movimento in un verso viene annullato dal movimento opposto del tappeto. Si pensi, ad esempio, ad un più intenso impegno professionale che produca maggiori risorse ma riduca significativamente la presenza in famiglia e la vita di relazione in generale, con scadimento della qualità della vita.
6 Basti considerare che un aumento del PIL, ove fosse realizzato con danno ambientale, inciderebbe negativamente sul livello di felicità. Inoltre, il Pil non può misurare una serie di condizioni capaci di incidere sulla felicità, come il grado di libertà delle scelte o l’esercizio di altri diritti, la qualità delle relazioni col prossimo, che in molte situazioni, familiari o di amicizia, ma non solo, offrono gratificazioni legate al “dare”, anziché all’“avere”, ed in genere la premiante realizzazione di comportamenti configurabili come “altruismo razionale”, richiamato anche recentemente da Letizia Moratti nell’incontro all’ONU (4 novembre 2014), in occasione della presentazione del “Manifesto di finanza sociale”.

La metafora delle lenticchie ci riporta alla tendenza a mirare al solo companatico, tutto e subito possibilmente. Un tutto e subito che mina l’economia, la pace sociale, l’equilibrio ambientale. In economia il tutto e subito induce a puntare sulle “performances” di breve periodo, buttando le risorse disponibili in un vortice che mette talvolta a rischio la solidità nel medio e lungo termine anche di istituzioni storiche. È quello che è accaduto con l’avvio della crisi, dapprima finanziaria e poi dell’economia reale, con i titoli “sub prime”, nell’estate 2007 negli USA e poi estesasi a tutto il mondo. Crisi ancora da superare, soprattutto in taluni Paesi europei, nonostante l’enorme liquidità inserita e l’accrescimento del debito globale, da 142 mila a 199 mila miliardi, tra il 2007 ed il 2014, corrispondente al 286% del Pil dell’intero mondo. Senza tener conto dell’esorbitante massa di titoli derivati in circolazione, capaci di crisi, anche sistemiche.
La corsa al profitto a breve induce a trascurare la solidità finanziaria nel medio e lungo periodo e lo stesso equilibrio ambientale. Sembra di essere su di un metaforico Titanic in cui alcuni stanno sul ponte di comando, altri curano i loro affari o banchettano sui ponti riservati, mentre i più sono ammassati nel deck e viaggiano verso una meta a tutti ignota, anche per il venir meno dei tradizionali modelli interpretativi dell’economia e della società, travolti dagli imprevedibili effetti della finanza globalizzata, con la sua enorme massa di debito pubblico e privato e di titoli, per lo più derivati, che non potranno mai essere onorati, ma solo rinnovati anche con fantasiose modalità di ingegneria finanziaria7.
Tutto ciò porta a considerare l’esigenza di poter disporre di strumenti finanziari in grado di intervenire direttamente nel circuito finanziario, per il cui tramite le risorse possono affluire a sostegno degli investimenti virtuosi. E il caso dei “New instruments of social finance”, richiamati da Letizia Moratti nell’incontro al Palazzo di Vetro di New York, per la presentazione del “Manifesto di finanza sociale”, da lei promosso e

7 Secondo il McKinsey Global Institute, il Giappone, col 400%, è il più indebitato tra i Paesi sviluppati, mentre l’Italia figura al 12% posto con il 259%, preceduto da Paesi come l’Olanda col 325%, il Belgio col 327%, la Svezia col 290%, la Francia col 280%. Con la crisi sono stati immessi enormi capitali: secondo la Shadow Banking, negli USA 4 trilioni di dollari, in Giappone 2 trilioni, nell’ Eurozona 1 trilione di dollari, ma sembra ne abbia beneficiato molto la finanza e quasi nulla l’economia reale, col lavoro che scarseggia e le difficoltà nelle prestazioni della pubblica amministrazione, soprattutto locale.

proposto anche come sviluppo culturale per il rilancio della sostenibilità della crescita nei mutanti modelli economici e sociali.
Un percorso culturale capace di immaginare interventi di lungo periodo che sap- piano operare virtuosamente nel sociale e per la tutela dell’ambiente. In assenza dei quali si rischia non solo di andare indietro, di fare come il gambero nel consumo del pane, ma di accrescere le sperequazioni sociali già eccessive, la povertà di parte del mondo, la denutrizione di vaste popolazioni e l’inaridimento della terra8.

LA FAME NEL MONDO
Viene posta in discussione la sostenibilità futura della filiera alimentare, in vista dei 9 miliardi di abitanti della terra, che richiedono un aumento del 60% della produzione di derrate alimentari entro il 2050. Da realizzare pur in presenza di imprevedibili cambiamenti climatici, di tendenze allo spreco di circa un terzo del cibo prodotto e con esso delle risorse naturali e di tutti gli altri fattori utilizzati, di un eccessivo impiego di cereali nell’allevamento del bestiame e nella produzione di carburanti, che sottraggono terra alle coltivazioni per l’alimentazione umana9. Ad aggravare queste considerazioni valga il miliardo di persone affamate, in parte residenti in paesi economicamente sviluppati, cui si aggiungono due miliardi senza adeguata alimentazione di alcuni nutrimenti essenziali, nonostante nel mondo ci siano alimenti in abbondanza10. Vi si contrappone il miliardo e mezzo di persone obese o in rilevante sovrappeso, dovuto pure ad un errato schema di consumo, eccessivamente orientato alle carni, con pesanti costi ambientali, soprattutto in alcuni paesi sviluppati11. Si pensi, infine, alle sperequazioni nella produzione e nella distribuzione delle derrate, originarie per l’80% da piccoli produttori spesso rimunerati in misura insufficiente ri-

8 ONU, New instruments of social finance, New York, Palazzo di Vetro, 4 novembre 2014.
9 Un terzo della produzione mondiale di cereali è utilizzata come mangime per animali. Philip Lymbery, pre- sidente della Compassion in world farming, in «Farmageddon. The true cost of cheap meat», precisa che per allevare una tonnellata di pesce salmone o trota, vengono sacrificate sei tonnellate di acciughe o di altri pesci non di allevamento.
10 Questo paradosso è stato denunciato anche da Giovanni Paolo II con l’affermazione che «c’è cibo per tutti, ma non tutti possono mangiarne, mentre lo spreco e lo scarto sono davanti agli occhi di tutti».
11 Philip Lymbery, in «Farmageddon. The true cost of cheap meat», sostiene che nei paesi sviluppati si consuma da due a tre volte il fabbisogno di carni.

spetto al loro impegno e privi di adeguati incentivi, nonostante la riconosciuta loro virtuosità nella salvaguardia della terra12.
Papa Francesco ha recentemente ricordato che «si tratta di eliminare quegli ostacoli che penalizzano un’attività così preziosa e che spesso la fanno apparire poco appetibile alle nuove generazioni, anche se le statistiche registrano una crescita del numero degli studenti nelle scuole e negli istituti di agraria, che lascia prevedere un aumento degli occupati nel settore agricolo». Un settore che a giudizio di Carlo Petrini, ideatore di “Slow Food”, offre la possibilità di realizzarsi in una dimensione più umana con applicazione della creatività individuale, del vivere con se stesso, del buon uso delle risorse secondo l’anima dei contadini e degli artigiani, di chi tiene viva la creazione. Si può concludere che per il cibo si tratta, anche e forse soprattutto, di un problema culturale che coinvolge tutto, dai processi di produzione, alla destinazione e distribuzione, allo schema generale dei consumi alimentari. Con papa Francesco, può avvertirsi l’esigenza che sia «ripensato a fondo il sistema di produzione e distribuzione del cibo», ar- gomento che sarà ripreso nell’enciclica in approntamento sul creato. Egli ha altresì affermato che «l’assolutizzazione delle regole del mercato, una cultura dello scarto e dello spreco che nel caso del cibo ha proporzioni inaccettabili, insieme con altri fattori, determinano miseria e sofferenza in tante famiglie».
Quanto all’utilizzo di cibo, si avverte l’esigenza di nuove tematiche in grado di orientare verso consumi più salubri e compatibili con l’ambiente, come validamente sostenuto dalla Fondazione Barilla13. Se l’intera popolazione del globo consumasse secondo la media italiana, non dissimile da quella europea, occorrerebbero le risorse di due mondi e mezzo, mentre se consumassimo tutti come un etiope, basterebbe mezzo pianeta per sopravvivere. Nel suo assieme il problema della fame è quindi un problema più politico che tecnico. Viene qui posto in questione il diritto all’alimentazione, che solo 35 paesi hanno inserito nella propria costituzione14, come ha recentemente ricordato il ministro alle Politiche agricole alimentari e forestali Maurizio Martina, e che va richiamando sempre più l’attenzione di quanti abbiano a cuore il futuro dell’umanità. Il cibo denota più di ogni altro indicatore il livello di sviluppo di un’area, sia per gli

12 Un discorso a sè meriterebbe il nostro paese, osannato per il buon cibo e il particolare clima, utile alle coltivazioni agricole, che esporta per 31 miliardi di euro e importa ben 35 miliardi di alimenti dall’estero.
13 Utili al riguardo le indicazioni della Fondazione Barilla alla VI Edizione dell’International Forum on Food and Nutrition, Università Bocconi (Milano, 3-4 dicembre 2014).
14 Tra i quali Brasile, India, Messico e nessun paese dell’Europa.

aspetti economici, sia per quelli della virtuosità dei consumi e della qualità della vita. In questo è soprattutto il consumo di pane l’elemento di maggior portata di un’analisi del reale livello di sviluppo socioeconomico e di virtuosità nel vivere valori autentici e non effimeri; questi ultimi spesso indotti da distorsive campagne pubblicitarie.

LE NUOVE MODALITÀ DI VALUTAZIONE
Per meglio valutare dove il consumo di pane è più virtuoso, sono in fase di studio alcuni modelli che tendono ad individuare il punto in cui il consumo generale da virtuoso diviene indicatore di scadimento nel consumismo e, in questo processo, dove si colloca lo specifico utilizzo del pane, come nutrimento virtuoso del corpo e delle aspettative di gratificazione del lavoro e della vita. Matrici e modelli da applicare poi ad altri alimenti, con i dovuti aggiustamenti. In sintesi una curva “gaussiana” che delinei il punto di svolta, da sovrapporre a quella del consumo del pane nelle diverse aree considerate, suddivise per classi di reddito delle popolazioni.
Questi modelli, partendo dal mio “Metodo della scomposizione dei parametri”, cui l’Enciclopedia Treccani ha dedicato una voce15 e utilizzando matrici ergonomiche con ricorso a SW Neurali e ad alcune applicazioni dell’intelligenza artificiale, sono infatti in grado di indicare dove il consumo di pane appare più virtuoso, in rapporto ai consumi complessivi, alle capacità di spendita e alle tradizionali abitudini di consumo delle popolazioni. Il ricorso a queste modalità di analisi accresce e confronta meglio, su più livelli e con diverse interconnessioni, le variabili considerate nella scomposizione dei parametri. Di tali innovazioni tecnologiche si hanno esempi nell’ambito della filiera alimentare, come per la campagna di prevenzione denominata “DetoxFungi”, condotta nell’Unione Europea, nonché in ricerche nella pubblica amministrazione italiana16.
Questi, dell’andamento del consumo del pane, dell’eccesso di consumi di carni e di altre particolarità del consumismo, sono aspetti che coinvolgono pure la complessa e vasta tematica della tutela ambientale e delle connesse variazioni climatiche. Attorno ad essa va rivelandosi un interesse sempre crescente, anche per lo stimolo indotto dai

15 Cfr. in appendice Enciclopedia Treccani (2009), Metodo della scomposizione dei parametri, in http:// www.treccani.it/…/metodo-della-scomposizione-dei-parametri…/; anche http://www. giancarlopallavicini.it/…/metodo-della-scomposizione-dei-pa….
16 Maggiori dettagli nel sito http://www.giancarlopallavicini.it/…/metodo-della-scomposiz…- parametri/-un-applicazione-concreta.

puntuali richiami delle principali istituzioni internazionali e di papa Bergoglio17. Il che mi induce ad estendere queste mie righe al rapporto fra attività economica ed ambiente culturale e naturale ed all’esigenza, non più procrastinabile, di meglio definire e più concretamente applicare la “soglia” alla quale arrestare il diritto dell’uomo a intervenire sull’ambiente per migliorare la qualità della vita, senza invece finire col peggiorarla, come annotato nel testo in Appendice18.

CONCLUSIONI
L’approfondimento conoscitivo sul pane, di cui è illuminato esempio questo nostro evento su “La civiltà del pane”, nel più vasto programma di Expo 2015 e della Carta di Milano, in particolare della “Food Policy Milano” e della “Global Alliance for the Future of Food”, annunciate dal Presidente della Fondazione Cariplo Giuseppe Guzzetti, rappresenta un passaggio obbligato per consentire un futuro più virtuoso all’umanità intera, che possa essere indotta a mediare col pane il piatto lusinghiero, ma talvolta dannoso, delle sole lenticchie di Esaù ed evitare a tutte le aree favorite economicamente l’arretramento del gambero da me inizialmente richiamato, con la sua dannosità per la salute, per l’equilibrio sociale, per la nostra madre terra e per la qualità della vita di ciascuno e di tutti, con ciò riducendo le alee di un percorso meno virtuoso che tutto travolga, come paventato in diverse sedi ed anche presso la FAO, pure ad iniziativa dello scrivente19.

17 Di particolare interesse la sua affermazione «La terra non è un’eredità che noi abbiamo ricevuto dai nostri genitori, ma un prestito che fanno i nostri figli a noi, perché noi la custodiamo e la facciamo andare avanti per riportarla a loro».
18 In appendice, G. PALLAVICINI, I limiti ambientali dell’agire economico, in ONU-UNESCO, Terzo congresso mondiale Zeri (Jakarta, 21-25 giugno 1997), ora anche in ID., Economia e tutela dell’ambiente, in Il suono e la parola, Rotary Club Milano San Siro, Milano 1996).
19 G. Pallavicini ha rilevato in margine al vertice FAO di Roma del 3 giugno 2008: «Nella veloce dinamica dell’era globale, che produce profonde mutazioni con l’intrecciarsi, colludere o scontrarsi delle diversità, accentramento della ricchezza, aggravio della povertà e fame, va emergendo l’esigenza di una responsabilità individuale e collettiva, senza la quale l’uomo è smarrito e perde una parte della propria identità “ontologica”. Viene meno il paradigma “libertà e responsabilità” che è strategico nell’era globale, in cui tutti siamo sensibili ed esposti agli altrui comportamenti, e ingrossa le frange degli emarginati, il cui disagio si riversa prima o poi su tutti. anche per influssi di natura economica, determinando situazioni sempre più difficili da controllare. Affinché l’auspicata responsabilità si sostanzi positivamente è auspicabile intervenga una mediazione culturale in grado di individuare e far emergere atteggiamenti e regole che attenuino l’esaltazione al massimo profitto economico come unico obiettivo e non penalizzino l’uomo e il suo ambiente sociale, culturale e naturale».

Dal crescente interesse per le tematiche accennate e dibattute in diverse sedi istituzionali e nell’imminenza dell’Expo 2015, possono essere tratti alcuni passaggi di un complesso, ma non eludibile percorso futuro, riguardante il pane e l’assieme del cibo di cui è simbolo, tra i quali:
❚ crescita culturale, soprattutto ad iniziativa pubblica e nello specifico ambito della formazione scolastica;
❚ miglior conoscenza del cibo sostenibile per il minor impatto ambientale, con specifica attenzione alla virtuosità del pane e al contenimento degli sprechi di cibo;
❚ individuazione e realizzazione di azioni comuni di “marketing” per la valorizzazione del pane;
❚ riduzione del divario fra il progresso tecnologico per il cibo e l’arretratezza nel definire le possibilità ed i limiti dell’alimentazione, evidenziato anche dalle riproduzioni di cibo mediante stampanti in 3D, recentemente proposto anche in Italia da “Foodini”;
❚ misure di tutela e incentivazione in favore dell’imprenditoria agricola, con particolare riguardo ai piccoli coltivatori;
❚ crescente attenzione al rapporto tra sviluppo economico e tutela ambientale;
❚ nuovo modello di sviluppo globale che riduca l’eccessiva sperequazione tra ricchezza e povertà e ponga rimedio alle vaste aree di denutrizione, avendo presente che si tratta di aspetto più politico che tecnico.

Appendice
Si pubblicano di seguito gli interventi di G. PALLAVICINI, I limiti ambientali dell’agire eco- nomico, ONU-UNESCO, Terzo congresso mondiale Zeri (Jakarta, 21-25 giugno 1997, edito anche in ID., Economia e tutela dell’ambiente, in Il suono e la parola, Rotary Club Mi- lano San Siro, Milano 1996 (Il Narratario), da p. 97 sgg.; e Aggiornamento dei canali tematici. Metodo della scomposizione dei parametri, Enciclopedia Treccani, 2009, cfr. www.treccani.it/…/metodo-della-scomposizione-dei-parametri…/).

I LIMITI AMBIENTALI DELL’AGIRE ECONOMICO
È in atto una crescente attenzione alla “soglia” alla quale arrestare il diritto dell’uomo ad essere “agricola” e “faber”, ora “communicans” o “coniunctus”, intervenendo sull’ambiente per migliorare la qualità della vita, senza giungere invece a peggiorarla. Ciò presuppone ovviamente di stabilire un concetto di “migliore qualità della vita”, che, ad esempio, consenta di dire se sia auspicabile vivere in un mondo meno inquinato, ma con minori disponibilità di beni e servizi, oppure convivere con alte produttività inquinanti.
Ne consegue che la fissazione della soglia alla quale arrestare la manipolazione dell’ambiente non deve rispondere soltanto alla ‘legge economica’ di massimizzare il profitto e minimizzare il danno, ora largamente prevalente. Basti pensare che non è neppure detto che interventi esasperati per giungere a eliminare completamente il danno fisico di un’eccessiva manipolazione dell’ambiente naturale possa essere legittimo, se ciò non assecondasse in modo adeguato il rapporto tra l’uomo e la natura. Ne deriverebbero, infatti, frustrazioni delle esigenze di fruizione immateriale, anche sol- tanto estetiche, dell’ambiente naturale.
Questo impone l’individuazione e la definizione di modelli concettuali nuovi, atti a considerare il comportamento degli ecosistemi e gli insiemi di interazione tra attività umana e ambiente, nell'ambito di uno scenario complessivo, che consenta una visione d’assieme delle diverse parti interagenti nel complesso sistema ambientale e che escluda considerazioni isolate, inidonee a una corretta comprensione dell’uomo e dell’ambiente.
Balza da ciò in evidenza anche la dimensione non certo locale, ma universale della materia trattata. Le politiche sinora adottate, con il ricupero del danno prodotto nell’immediato o con l’attenuazione dell’inquinamento, non sembrano assecondare la visione d’assieme del rapporto uomo-ambiente e l’esigenza di chiaramente individuare nei comportamenti economici e sociali uno dei principali fattori di influenza negli squilibri ambientali. Soprattutto, appaiono inidonee a determinare il mutamento culturale atto a comprendere il fatto ambientale e i limiti da esso imposti allo sviluppo. Il conflitto tra ambiente e sviluppo, che certamente esiste, va risolto con la definizione, in via preventiva, del “limite accettabile”, abbandonando la prassi del rimedio a posteriori, con ciò evitando di varcare i limiti di sostenibilità, oltre i quali vengono penalizzati uomo e ambiente. Si dovrà dunque sviluppare una coscienza comune, che stimoli alla valutazione delle conseguenze sugli altri degli atti vòlti al perseguimento dell’interesse individuale.
A questa coscienza non potranno sottrarsi le aziende di produzione e servizi. È di tutta evidenza, infatti, che l’attività d’azienda, pur facendo perno, per come deve essere, sull’aspetto più strettamente economico della vita aziendale e ovviamente sul profitto, non può trascurare, ma deve anzi tenere esplicitamente presente una serie di altre istanze “interne” ed “esterne”, alle quali la vita stessa dell’azienda è sensibile e che compongono, nell’assieme, la realtà in cui l’azienda vive ed opera. Di queste realtà, del resto, le aziende sono cellule economiche singole, il cui armonico com- porsi tra di loro e con altre componenti non economiche, consente possibilità di vita e di successo allo stesso sistema economico cui partecipano.
Tale sistema è espressione dell’attività umana volta al miglioramento della qualità della vita, unitamente ad altre componenti. Il denaro vi gioca un ruolo strumentale essenziale. Ma allorquando da mezzo di scambio diviene fine unico dell’attività, finisce col porre in dubbio la stessa legittimità delle manipolazioni umane sull’ambiente. Partendo da questa considerazione si giunge ad auspicare l’adozione di modalità di valutazione dell’attività economica che vadano oltre il solo profitto.
Anche a livello “macroeconomico” va delineandosi l’inadeguatezza delle valutazioni arcaiche legate al solo “PIL - Prodotto Interno Lordo”. Esso appare utile per funzioni di indirizzo dello sviluppo economico, soltanto laddove venga perseguita una disponibilità sempre crescente di beni e servizi, a prescindere da ogni altra istanza dell’uomo col suo ambiente sociale, culturale e naturale. Ma in circostanze caratterizzate da squilibri socio-economici e da degrado sociale, culturale e naturale, che sollecitano indirizzi di limitazione nell’uso delle risorse e di attenzione alla loro più equa ripartizione, il solo PIL evidenzia tutta la sua arcaicità, non essendo in grado di assecondare un più virtuoso sviluppo.
Tornando alle modalità di valutazione dell’attività d’azienda, un primo tentativo di innovazione è stato avviato negli anni 1960, a titolo forse un po’ provocatorio, con la proposta del “Metodo della scomposizione dei parametri”, ma più recentemente una simile impostazione delle quantificazioni aziendali sembra suscitare maggior interesse, soprattutto nei Paesi dell’Est europeo, ma anche nell’Occidente, in relazione ai condizionamenti promossi, pure a livello economico, dal rafforzarsi delle istanze ambientali20. Anche a Cuba, nell’economia della pianificazione che non sembra offrire margini alle applicazioni innovative, la presentazione del suddetto modello ha suscitato interesse, sia pure a livello solo accademico21. Di particolare rilievo l’applicazione fattane nell’E.d.c. Economia di Comunione del Movimento dei Focolari, che comprende 842 aziende sparse nel mondo.
Si tratta di fermenti suscettibili di portare nel tempo a risultati concreti, in vista di un prevedibile approfondimento, non solo culturale, dei comportamenti economici e sociali e della qualità della vita, al quale tutti dobbiamo essere sensibili. Questo stesso incontro costituisce conferma dell’interesse all’argomento trattato e, per certi aspetti, un significativo approfondimento, volto alla futura definizione di più sensibili rapporti tra impresa ed ambiente, che presupposte nuovi modelli concettuali ed etici, capaci di tradursi in futuri e più virtuosi atteggiamenti concreti.

TRECCANI: METODO DELLA SCOMPOSIZIONE DEI PARAMETRI
Modalità di calcolo dei risultati non direttamente economici dell’attività d’impresa, connessi ad istanze etiche, morali, sociali, ambientali e culturali, che ha introdotto il moderno concetto di “responsabilità sociale d’impresa” ed ha anticipato i suoi più recenti sviluppi. Esso è stato ideato e proposto dall’economista italiano Giancarlo Pallavicini negli anni 1960, nel presupposto che l’attività d’impresa, pur essendo orientata al profitto di chi la promuove, non dovesse trascurare, ma tenere esplicitamente presente, una serie di istanze riguardanti l’uomo ed il suo ambiente sociale, culturale e naturale.
Non come mera affermazione di principio, bensì in modo concreto e calcolabile come avviene per il profitto. Dopo una prima applicazione sperimentale presso la Cariplo negli anni 1960, intesa a valutare l’apporto dei singoli sportelli bancari allo sviluppo del “credito speciale”, all’epoca erogato soprattutto attraverso il Mediocredito Lombardo, questo metodo è stato pubblicato dall’Editore Giuffré nel 1968 in Strutture integrate nel sistema distributivo italiano. Una proposta all’epoca rivoluzionaria, ripresa e sviluppata nei suoi presupposti da altri economisti e particolarmente da Robert Edward Freemann, nel suo saggio Strategic Management: a Stakeholder Approach, pubblicato a Londra nel 1984.
Soltanto in epoca recente viene però compreso nella sua valenza come strumento di calcolo dei risultati non direttamente economici, in grado di esercitare i suoi effetti anche sul risultato finale e di apportare valore all’impresa. Non fosse altro che per il fatto che le istanze interne ed esterne al- l’impresa, alle quali il metodo si riferisce, caratterizzano l’“habitat” in cui l’azienda opera ed in-

20 G. PALLAVICINI, Strutture integrate nel sistema distributivo italiano, Milano 1969; Metodo della scomposizione dei parametri, Enciclopedia Treccani, 2009, ripreso qui di seguito.
21 G. PALLAVICINI, Sirven nuevos mensajes y reglas a la globalizacion, in Globalizacion y problemas del desarrollo, III Encuentro Internacional de econonistas, La Habana 2000.

fluenzano le possibilità di vita e di successo dell’impresa stessa. Inoltre, esse coinvolgono positivamente i portatori di interesse (stakeholders) interni ed esterni all’impresa, apportandovi valore.
Per questo, nel crescente interesse per la “responsabilità sociale d’impresa”, manifestatosi all’inizio del nuovo millennio e che ha ricevuto ulteriore impulso dalla crisi mondiale avviatasi nel 2007, dapprima nell’ambito finanziario e poi nell’economia reale, va delineandosi in modo sempre più marcato l’esigenza di considerare, e quindi di valutare concretamente, il grado di affermazione dei principi dell’etica nell’economia in generale e nell’attività finanziaria in particolare.
Si afferma pertanto il principio che per una simile valutazione debba farsi ricorso a nuove modalità, che vadano oltre i cosiddetti “codici etici” ed i “bilanci sociali” ed oltre gli stessi “standard di qua- lità”, per avvicinarsi ai criteri che, negli anni 1960, hanno ispirato il “Metodo della scomposizione dei parametri”. Secondo l’impostazione iniziale di Pallavicini, esposta nella Prefazione al volume citato, si tratta di operare «formulando nuove ipotesi di impostazione e di interpretazione delle determinazioni quantitative di maggiore e più frequente rilievo in cui le astrazioni proprie dell’indagine, che contempla fenomeni d’azienda nell’aspetto economico e condizionamenti dell’ambiente in cui l’azienda opera, vengono quantificate sì da addurre ad un contatto con i complessi atteggiamenti dell’amministrazione concreta». I richiami a questo metodo, all’epoca rivoluzionario, hanno voluto costituire, secondo il suo ideatore, un «contributo all’indirizzo di metodo a ciò appropriato e vogliono essere soprattutto intesi a richiamare l’attenzione di quanti, uomini di scienza ed operatori economici, seguono con particolare cura questa materia».
All’origine questo metodo proponeva di articolare l’obiettivo finale dell’azienda in una serie di parametri, che consideravano, oltre al profitto, non più identificabile come unico obiettivo, una serie di componenti aventi un rilievo non direttamente economico, ma non estranei all’esigenza di conseguimento di un adeguato reddito. Componenti in grado di apportare valore all’impresa, per gli effetti positivi nella proiezione e nel consolidamento dell’impresa, per il miglioramento della percezione fattane dagli “stakeholders” interni ed esterni all’impresa e per il più armonico comporsi nel sistema economico cui l’impresa partecipa.
Secondo il metodo dei parametri, occorre procedere in diverse direzioni riguardanti:
1) l’articolazione dell’obiettivo dell’attività economica, che va portato al contatto con i fenomeni concreti dell’impresa e dell’ambiente in cui essa opera, attraverso una ripartizione che assegni ad ogni componente una precisa aliquota dell’obiettivo globale fatto uguale a 100;
2) l’analisi dell’attività d’impresa, che deve prendere in considerazione la complessa funzione di processo e prodotto, nelle singole azioni in cui si dirama, individuandone di ciascuna il possibile effetto su uno o più componenti l’obiettivo globale;
3) il raggruppamento in classi e sottoclassi delle singole e varie azioni, che consenta di valutare il grado in cui esse assecondano o contrastano il perseguimento dei diversi componenti l’obiettivo dell’impresa;
4) l’articolazione qualitativa, che va riportata agli aspetti quantitativi di ogni classe o sottoclasse di azioni, sulla base dei volumi operativi svolti, onde pervenire ad una quantificazione esprimente il ruolo svolto da ciascuna di esse nel perseguimento dell’obiettivo globale ed articolato, da cui estrapolare indirizzi utili ad orientare la scelta delle migliori opportunità operative nei loro diversi aspetti.
A questa articolazione iniziale, che nell’obiettivo globale riuniva profitto e risultati non direttamente economici, si è successivamente accompagnata una diversa applicazione, intesa a superare le difficoltà insite nell’ammettere negli organi decisionali i rappresentanti di categorie estranee al capitale di rischio. L’ideatore del metodo ha quindi sviluppato ipotesi di contabilità specifiche per gli obiettivi non direttamente economici, da porre a lato della normale contabilità in moneta di conto, riguardante il solo profitto. Esperienze di tale impostazione sono state avviate all’estero e, soprattutto nell’Unione Sovietica e nella Federazione Russa, delle quali Pallavicini è stato il primo consulente occidentale per la riforma dell’economia, soprattutto all’epoca di Michail Sergeevic Gorbacev. Esse hanno poi subito una battuta d’arresto con Boris Nikoleevic El’tsin, meno sensibile alla considerazione degli aspetti non direttamente economici e meno incline a coniugare il profitto col sociale.
Il Metodo della scomposizione dei parametri è stato inoltre utilizzato per la valutazione del contributo offerto dalle singole unità operative nelle aziende divise ed ha pure incontrato applicazione nella valutazione dell’efficienza degli investimenti pubblici, secondo le impostazioni richiamate nella citata opera "Strutture integrate nel sistema distributivo italiano". Il suo utilizzo si caratterizza per la flessibilità dell’impostazione, che va correlata alle alterne fasi della congiuntura economica, attraverso la riconsiderazione del peso di ciascun obiettivo parziale dell’attività d’impresa, nell’ambito del più generale obiettivo a volta a volta prescelto.
La crisi globale del 2007 e la frequente sostituzione del debito privato con debito pubblico sembrano consentire un più diretto intervento decisionale da parte di rappresentanti dei portatori di interesse anche estranei al capitale e favorire lo sviluppo di forme di valutazione degli aspetti non direttamente economici dell’attività d’impresa, nello stesso ambito della misurazione del profitto, di cui il metodo della scomposizione dei parametri rappresenta un’indiscussa anticipazione. Infatti, le vicende dell’economia, indotte dalla crisi globale della prima decade del terzo millennio, sembrano orientare verso il ricupero dell’impostazione iniziale di questo metodo, nella quale profitto ed obiettivi non direttamente economici partecipano ad un’unica elaborazione del risultato dell’attività d’impresa, mentre il necessario aspetto monetario, nella sua specifica contabilità, ricupera il ruolo che gli è proprio, quale strumento finalizzato al perseguimento dell’obiettivo globale dell’attività d’impresa.

Read 1288 times
Login to post comments
Home Blog La civiltà del Pane